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Ho scritto questa pagina di diario di viaggio dopo aver soggiornato a Hook Island, un’isola delle Whitsunday Islands, nel Queensland, Australia. Seduta sul Greyhound ripensavo a quell’isola che mi aveva dato molto più di quello avrei potuto aspettarmi.
Mi siedo sul sedile del Greyhound Australia e guardo fuori. Mi accosto al finestrino per poter vedere soltanto quel cielo punteggiato da migliaia di stelle. Appoggio il naso al vetro e quasi trattengo il respiro per non appannare quell’immagine.
Il paesaggio è monotono, centinaia di chilometri di canna da zucchero, illuminato soltanto dai fanali dell’autobus, ma non distolgo lo sguardo. Sono consapevole che questa è l’ultima sera in cui potrò vedere un cielo come questo. Domani mattina arriverò a Brisbane, una grande città, e le grandi città si assomigliano tutte, cercano di toccare il cielo, in realtà lo nascondono.
Ripenso a quello da cui mi sto separando. Sono sopraffatta dalle emozioni e i miei occhi si riempiono di lacrime. Non provo imbarazzo, intorno a me ci sono solo ombre che si allungano sui sedili.
Ero sbarcata pochi giorni prima a Hook Island con il mio piccolo bagaglio di viaggi e di troppe paure. Avevamo alloggiato in quello che generosamente veniva definito un resort spartano, in realtà sarebbe stato generoso anche chiamarlo campeggio. Quell’isola offriva ai suoi ospiti unicamente il contatto con una natura sorprendente, proprio per questo alcuni ospiti avrebbero voluto fuggire dopo poche ore, mentre altri si abbandonavano completamente ad essa.
I freschi ricordi si affacciano nella mia memoria, quella mattina mi ero svegliata all’alba, ero corsa a controllare se l’insetto che sembrava un ramo di un albero era ancora dove l’avevo visto la sera prima. Lo volevo rivedere.
Sulla piccola spiaggia avevo ammirato il sole sorgere. Era una mezzaluna appoggiata all’oceano, in parte nascosta da Whitesunday Island. Si era levato velocemente, illuminando di arancione il cielo e facendo brillare le acque profonde dell’oceano. Il silenzio intorno a me era stato rotto soltanto dal canto del kokaburra . Quando il sole era ormai alto nel cielo, avevo sentito un verso simile allo sciabordare delle onde contro la spiaggia, erano due balene. Avevo assistito ipnotizzata alle loro evoluzioni in aria, ai tuffi, alle immersioni per gustare il ricco banchetto sottomarino. Non avevo provato emozioni, quelle sarebbero arrivate dopo, volevo solo osservare.
Kleidi, uno dei ragazzi che lavorava sull’isola, mi aveva accompagnata su una piccola barca a Whitehaven Beach, quella che tutti hanno premura di descrivere come una delle dieci spiagge più belle del mondo o come otto chilometri di pura silice bianca. Fortunatamente non ricordo Whitehaven Beach in quel modo. Avevo attraversato un tratto di foresta per poterla vedere dall’alto ed ero rimasta rapita dai giochi di colori delle acque trasparenti dell’oceano che lambivano piccole lingue di sabbia con la bassa marea. L’armonia era perfetta al punto che gli intrusi, bagnanti o piccole imbarcazioni, non facevano altro che esaltarla. Sembrava che le poche persone su quella spiaggia fossero tutti spiriti liberi e leggeri consci della fortuna di lasciare le proprie impronte su quella sabbia a tratti morbida e a tratti ondulata dalle onde dell’oceano.




Whitehaven Beach,
Le emozioni erano esplose durante il viaggio di ritorno, quando Kleidi mi aveva detto di mettere la macchina fotografica nello zaino “because now we run”. Aveva spinto al massimo quella piccola barca sull’oceano che improvvisamente era diventato agitato. Con l’unica certezza del mio giubbino di salvataggio, avevo sentito un misto di euforia e di terrore. Avevo temuto che la barca potesse capovolgersi, ma la velocità, il sorriso di Kleidi, la bellezza dell’ambiente circostante, il senso di libertà, avevano prevalso e mi avevano dato un senso di eccitazione e una miriade di pensieri mi aveva attraversato la mente. Non mi ero mai sentita così lontana da tutto, dalle preoccupazioni familiari e da un lavoro che mi stava spegnendo ogni giorno, volevo essere come vedevo Kleidi.
All’improvviso qualcuno accende una luce dall’altra parte del corridoio, mi giro e vedo i suoi occhi stanchi. Torno a guardare fuori, ma vedo i miei occhi riflessi sul vetro. Anche i miei sono stanchi e non vedo più lo sguardo felice che si rifletteva nello specchio macchiato di ruggine nei bagni dell’isola.
La luce oltre il corridoio viene spenta e riappaiono le stelle.
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